Milanese di nascita, Paolo Del Conte ha deciso di trasferirsi nelle nostre colline, a Castell’ Arquato, con moglie e figli. Della vita precedente ricorda con piacere il suo lavoro di insegnante che lo ha appagato e arricchito dal punto di vista umano. Oltre ad essere insegnante Paolo Del Conte è anche musicista. Grazie alla British invasion e grazie al travolgente fenomeno dei Beatles ha iniziato a suonare la chitarra e ne ha fatto la sua professione che, nel corso degli anni, ha arricchito con importanti collaborazioni. Mi riferisco a Ron, Bruno Lauzi e il grande Lucio Dalla.
Infine, e sicuramente non per importanza, devo parlare di Paolo Del Conte come autore di romanzi. Ho già parlato di lui in questo sito in un post sul suo libro precedente La bella signora dal soprabito rosso. Nella breve intervista che segue gli propongo alcune domande sul suo ultimo libro Gas station, pubblicato da Corsiero edizioni, una storia profondamente americana raccontata con una scrittura pacata e coinvolgente.
Gas Station è arrivato in finale, tra i primi dieci al Premio Giorgione, un concorso letterario nazionale per romanzi editi.
Quali sono le principali influenze – letterarie o musicali – che ti hanno portato alla scrittura di questa storia?
Sia dal punto di vista letterario che musicale le influenze provenienti dagli Stati Uniti sono state molteplici. Sin da bambino autori come Mark Twain a Jack London mi affascinavano moltissimo, non solo per le avventure e la prosa, ma l’ambiente, la natura selvaggia del grande Nord o la cultura della società dell’epoca, avevano una presa su di me che non provavo con altri scrittori europei. Poi, crescendo, Harper Lee,Marjorie Rawlings, la Alcott… giusto per citare solo alcune delle grandi autrici americane che mi hanno trasportato in un mondo interessantissimo,formativo, direi determinante per la persona che sono diventato. Pur non volendo dilungarmi troppo, come non ricordare Hemingway, Steinbeck, Kerouac, verie propri punti di riferimento della mia adolescenza/giovinezza. Per finire, poi, la scoperta di Mary McCarthy, i minimalisti, in particolare Susan Minot -adorabile il suo libro d’esordio “Scimmie”- JoyceCarrol Oates, Elisabeth Strout e il bravissimo James Frey di “Buongiorno Los Angeles”, un capolavoro. Un cenno merita Louise Dickinson Rich, sconosciuta in Italia, ma amatissima negli Stati Uniti per il suo libro di grande successo “We Took to the Woods”, mai tradotto in italiano.
Per quanto riguarda la musica tutto parte da Liverpool… a poco più di dieci anni The Beatles irrompono nella mia vita e aprono una prospettiva unica ed indimenticabile. C’è chi sostiene che nell’universo musicale ci siano Loro. Punto. Poi gli altri… Io sono certo che senza quei quattro ragazzi tutto sarebbe stato diverso. Dopo aver scoperto la Musica, i miei gusti si spostano oltre oceano fino a Dylan, immenso. Poi Crosby Stills Nash & Young, un gruppo eccezionale di quattro individualità che hanno saputo miscelare le loro culture musicali di provenienza e le loro splendide voci. Erano considerati la band più politicizzata dell’epoca. Joni Mitchel è stataforse l’artista più completa per l’evoluzione musicale che ha portato avanti durante tutta la sua attività; Bonnie Raitt, poco conosciuta da noi, ma interprete e autrice inconfondibile per la sua caratteristica voce. Infine il grandissimo e altrettanto poco famoso Kelly Joe Phelps, chitarrista acustico dotato di un talento raro… tutti loro non sono solo colonna sonora di Gas Station, ma sono la mia colonna sonora.
Dalla lettura del libro sembra che tu conosca molto bene la provincia americana. Vuoi spiegare dove nasce questo interesse?
Ho cominciato a viaggiare negli StatiUniti a vent’anni. Molto giovane, per coincidenze e amicizie, ma soprattuttoper la grande attrazione che quel Paese ha sempre esercitato su di me. Ci simuoveva in auto, acquistata di terza, quarta mano… oppure noleggiata. In oltretrent’anni di viaggi ho percorso circa novantamila chilometri, attraversato,visitato, ecc. 35 Stati e 4 Province canadesi. Ma il Sud vero e proprio mai,non era il caso… specialmente nei primi ‘70. Ovviamente ho visto anche grandicittà, New York su tutte, San Francisco, Boston, Seattle, Chicago… ma ciò checercavo con i miei compagni era la natura, i Parchi Nazionali, le piccole cittàe villaggi. Quella Small town America raccontata dai film degli anni ’70, daNational Geographic, dagli autori e musicisti che amavamo. Nel primo viaggio lameta era raggiungere Duluth, Minnesota, la città sul Lago Superiore dove è natoBob Dylan. E da lì avanti, ancora e ancora. In America la strada ti “chiama” èqualcosa di primordiale che bisognaprovare, non ci sono parole che siano in grado di spiegare. E noi ragazzi, maanche da adulti, avevamo un modo di viaggiare molto economico, qualchecampeggio, raramente un motel, ma soprattutto dormivamo nelle Rest Area, aree di sosta lungo leautostrade proprio adatte per interrompere i lunghissimi percorsi americani,niente a che fare con le nostre aree di servizio. Come si può intuire dal mioracconto, per fare rifornimento, dormire in un motel o trovare una tavolacalda, Diner, bisogna uscire dalleHighway. Quindi noi viaggiatori squattrinati passavamo la notte in quelle areeattrezzate con bagni e tavoli da pic-nic e al mattino i piccoli centri erano aportata appena fuori dalle autostrade, abbordabili in tutto: breakfast, cibo,lavanderie, negozi, piccoli market e, le prime volte ci sembrava incredibiletrovare spesso un’accoglienza così cordiale e amichevole, con inviti a casa diperfetti sconosciuti che ci ospitavano in quattro o cinque, solo perchévenivamo dall’Italia dove magari una mamma o una zia erano state in vacanza aVenezia, Firenze, Roma. E non sto parlando di gente con radici italiane, maamericani del Wisconsin, del Minnesota o del Nebraska, Stati in cui un europeo/italiano,allora -ma credo anche oggi- si vedeva di rado. In Europa verso l’Italia c’eradiffidenza, là no. Conosco persone che sono state in America e non hanno messoil naso fuori da Manhattan, quando proprio nello Stato di New York, a poche oreverso nord o in direzione Long Island, ci sono posti magnifici… ma poco pubblicizzati.
Perchè hai scelto di non dare nomi propri ai personaggi ma soprannomi?
Per quanto riguarda i nomi dei protagonisti non so dare una spiegazione razionale. Già nei primi miei due libri alcuni personaggi non avevano un nome, credo sia una questione di gusti. Senz’altro è venuto così, naturale, ho seguito istintivamente la mia scrittura che non ama dare vere e proprie descrizioni dei protagonisti, ma ne mette in risalto solo alcuni aspetti. Infatti non sappiamo che faccia hanno i ragazzi, perché non lo so neppure io, se sono alti o magri o chissà… ma certi particolari sì: i capelli per Codino, la Riccia, la signora dai Capelli Rossi; oppure il lavoro che fanno: Gas, il Viaggiatore, il Boss. Non sapevo che li avrei chiamati così durante tutto il romanzo ma, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, questa storia si è mossa di vita propria, i personaggi fanno cose che non ho mai veramente pianificato, mi hanno guidato per tutto il racconto e, immagino, fossero contenti anche del modo in cui venivano chiamati…Eravamo diventati amici, quando l’ultima frase è saltata fuori dal nulla ho pensato“caspita, è finita!”, e il primo sentimento che ho provato è stato tristezza. Comunque dai riscontri che ho avuto, il fatto di non avere dato nomi propri ai personaggi è piaciuto molto.
La storia è ambientata negli anni'70, sullo sfondo c'è la guerra del Vietnam. Come sono cambiati gli Stati Uniti negli ultimi anni e soprattutto dove stanno andando?
La guerra del Vietnam ho lasciato che rimanesse, durante tutto il romanzo, un doloroso rumore di fondo, così come si percepiva in quegli anni negli Stati Uniti giorno dopo giorno. Invece riguardo al cambiamento avvenuto in quel Paese negli ultimi anni, non ho molti elementi per valutare la situazione odierna. Senza dubbio è molto diversa in termini generali, del resto come in molte altre parti del mondo con governi democratici. Il Paese è diviso in due, lo dimostrano le ultime elezioni da almeno una dozzina d’anni. In Gran Bretagna la Brexit, se non ricordo male, ha vinto 52 a 48, e da noi in Italia per circa trent’anni c’è stata una forte spaccatura nell’elettorato e una notevole astensione un po’ dovunque in Europa così come negli USA. Anche tra gli anni ’60 e ’70 in America una crescente moltitudine di persone era contro la guerra in Vietnam, un’altra parte invece la sosteneva. Senza dubbio la società di oggi è molto più complessa rispetto ad allora, ma non bisogna dimenticare che quello che arriva fino a noi, sono sempre le peggiori notizie di politica o di cronaca. L’America è immensa, nelle sue contraddizioni, nei suoi valori, così come nelle differenze, in positivo e in negativo. Dove sta andando, sinceramente non lo so, ma rivolgerei la domanda al plurale, ad entrambe le sponde dell’Atlantico. Dove stiamo andando?
The answer my friend is blowin’ in thewind, the answer is blowin’ in the wind…
Alla prossima lettura.
Paola